Colpita a trent'anni
dalla tubercolosi, malattia non inusuale ai tempi e terrorizzante come un
brutto tumore oggi, Betty viene ricoverata in sanatorio per un periodo di tempo
imprecisato. La cura - all'epoca non esistevano antibiotici adatti - era
particolare: all'inizio i pazienti dovevano giacere a letto immobili per
settimane. Non potevano parlare, non potevano leggere né scrivere, non potevano
alzarsi, non potevano ridere. Prima di tutto, però, Betty è affetta da una
felice attitudine alla vita, alla gente, all'ironia, che le consente di
guardare in faccia la malattia e le regole apparentemente folli del sanatorio.
Pur non tacendo là paura, la disperazione, certi tratti meschini della vita in
ospedale (o, forse, della vita in generale?) è capace di sorriderne, di avere
pietà degli altri e anche di se stessa. In queste pagine si nasconde una storia
molto particolare, triste ma al tempo stesso comica, che spiazza il lettore,
forse un po' intimidito dalla lucidità quasi spietata di questa donna coraggiosa;
poi, quasi suo malgrado, si ritrova a vivere, soffrire, ridere e infuriarsi con
lei, si sente a casa nella vita claustrofobica e artificiale del sanatorio,
viene sedotto dal fascino di alcuni personaggi e urtato dalla pochezza e
grettezza di altri. Senza averne l'aria e forse senza volerlo, MacDonald offre
una grande lezione di vita a chi desidera coglierla; è inutile far finta di non
vedere la disperazione, il brutto, la sventura; molto meglio accogliere questi
immancabili compagni di certi periodi dell'esistenza con una risata - anche se
un po' a denti stretti.
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