Buenos Aires, giugno
1949. Nella gigantesca sala della dogana argentina una discreta fetta di Europa
in esilio attende di passare il controllo. Sono emigranti, trasandati o vestiti
con eleganza, appena sbarcati dai bastimenti dopo una traversata di tre
settimane. Tra loro, un uomo che tiene ben strette due valigie e squadra con
cura la lunga fila di espatriati. Al doganiere l’uomo mostra un documento di viaggio
della Croce Rossa internazionale: Helmut Gregor, altezza 1,74, occhi castano
verdi, nato il 6 agosto 1911 a Termeno, o Tramin in tedesco, comune
altoatesino, cittadino di nazionalità italiana, cattolico, professione
meccanico. Il doganiere ispeziona i bagagli, poi si acciglia di fronte al
contenuto della valigia piú piccola: siringhe, quaderni di appunti e di schizzi
anatomici, campioni di sangue, vetrini di cellule. Strano, per un meccanico.
Chiama il medico di porto, che accorre prontamente. Il meccanico dice di essere
un biologo dilettante e il medico, che ha voglia di andare a pranzo, fa cenno
al doganiere che può lasciarlo passare. Cosí l’uomo raggiunge il suo santuario
argentino, dove lo attendono anni lontanissimi dalla sua vita passata. L’uomo
era, infatti, un ingegnere della razza. In una città proibita dall’acre odore
di carni e capelli bruciati, circolava un tempo agghindato come un dandy:
stivali, guanti, uniforme impeccabili, berretto leggermente inclinato. Con un
cenno del frustino sanciva la sorte delle sue vittime, a sinistra la morte
immediata, le camere a gas, a destra la morte lenta, i lavori forzati o il suo
laboratorio, dove disponeva di uno zoo di bambini cavie per indagare i segreti
della gemellarità, produrre superuomini e difendere la razza ariana. Scrupoloso
alchimista dell’uomo nuovo, si aspettava, dopo la guerra, di avere una
formidabile carriera e la riconoscenza del Reich vittorioso, poiché era…
l’angelo della morte, il dottor Josef Mengele.
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