Voragine è un paesaggio
metafisico, un'apocalisse di rottami, l'endoscheletro di un romanzo di
formazione. Ai margini di una città assediata, distrutta, che è ieri ed è
domani, è qui ed è altrove, vive qualcuno di nome Giovanni. La sua casa è sulla
terra incendiata dal gelo, in una periferia esangue, accasciata sul relitto di
un acquedotto romano nei pressi di una ferrovia morta. È la casa in cui
Giovanni vive e il padre e il fratello muoiono. È la casa da cui Giovanni viene
cacciato e da dove comincia un vagabondaggio tra tunnel, ruderi infestati da
cani, carcasse di automobili e uomini spaventati. Uomini dominati da un ferino
istinto di sopravvivenza, da un’insensatezza che è costruzione e sfacelo. È destino.
Una voce lo segue e lo spinge a testimoniare la fine di un mondo che non smette
di finire, perché l’assedio della città c’è sempre stato. La voce atona di un
profeta retroattivo, priva di pathos, che registra la violenza senza un
sussulto ma rimane ipnotizzata dalla materia; che parla da un buio e da un
vuoto, nomina, è interiore e rimbomba nell’ovunque. La voce che accompagna
Giovanni fra le macerie mentre uomini ciechi si divorano l’un l’altro, lo
scorta fra incubi di bambini in fuga e supermercati saccheggiati, in una
regione più scura del sonno, senza fame e senza vita. È l’esordio di Andrea
Esposito, un narratore che, come un Piranesi distopico, trascina le sue rovine
in un futuro anteriore, prossimo e remoto; e, con frasi che risuonano come colpi
di martello sulla lamiera, racconta una ferocia che è organismo e linguaggio,
componendo la fiaba nera di un passato in macerie, di un millennio in
disfacimento, di un presente orfano.
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